Tra scommessa olimpica e sindrome da abbandono, lo scatto della montagna
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«La vera sfida è quella della quotidianità ». Annibale Salsa non ha nulla del guru, ma quando si parla di montagna è un’autorità riconosciuta (e ascoltata). Antropologo, professore universitario, ex presidente nazionale del Cai, studia i problemi delle terre alte da quando portava i calzoni corti. «Se togli i presìdi socio-economici – scuote la testa – le scuole, le strutture sanitarie, i mezzi pubblici, il declino nelle valli è inevitabile. Le persone, i giovani per primi, non possono fare altro che scendere in pianura per trovare lavoro. Il rilancio deve partire da lì, dagli investimenti per chi vive in montagna e di montagna. Il tutto in chiave moderna, coniugando tecnologia e
sostenibilità: significa recuperare i trasporti su rotaia, portare la banda larga, mettere in campo un turismo alternativo». Le Olimpiadi?
Salsa ride sotto i baffi: «Sembra che debbano esserci domani, invece arriveranno fra sei anni. In ogni caso io, a differenza degli ambientalisti duri e puri, non ho alcun pregiudizio. Anzi, ben vengano i Giochi. A patto che segnino una svolta. Che lascino realmente sul territorio infrastrutture durevoli e sostenibili». Eccola, la domanda chiave. Le Olimpiadi del 2026, nella straordinaria accoppiata Milano-Cortina, rappresenteranno davvero il volano per la riscossa della montagna? A parte la Perla delle Dolomiti, potranno essere un punto di ripartenza per l’intera provincia di Belluno (una delle tre completamente montane d’Italia, insieme con Sondrio e Verbano-Cusio-Ossola)? E in concreto, che cosa si deve fare per evitare che l’effetto a cinque cerchi svanisca il giorno dopo la cerimonia di chiusura, magari lasciando impianti arrugginiti, come accaduto anche a Torino?
I giorni dell’abbandono
Un fatto è certo: le Olimpiadi, con la prova generale dei Mondiali di sci del 2021, sono un’occasione da non lasciarsi sfuggire. Perché i problemi delle vallate, specialmente dove «non nevica firmato» (copyright Mauro Corona) stanno diventando sempre più evidenti. Roberto Padrin, presidente della Provincia di Belluno (precipitata rapidamente dalle posizioni di vertice al 51esimo posto nella classifica sulla qualità della vita del Sole 24 Ore), ha appena presentato agli Stati generali della montagna (riconvocati dal ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia dopo un anno di stallo in cui c’è stata pure la crisi di governo) un documento drammatico sullo spopolamento: tra Cadore, Agordino e Comelico, dal 2008 al 2018, si sono persi 10 mila residenti e oggi ci sono due ultrasessantenni per ogni ragazzo sotto i
14 anni. Nella Carnia friulana, se possibile, la situazione è addirittura peggiore: in vent’anni un crollo di 8 mila abitanti, come se fosse sparita Tolmezzo.
Il turismo da ripensare
Parallelamente, il turismo, fino a ieri considerato una sorta di miniera d’oro, è tutto da ripensare. In un ventennio, di fronte a un leggero aumento degli arrivi (soprattutto di stranieri), sulle montagne venete si è scesi da 6,2 a 4,2 milioni di presenze, cioè di pernottamenti nelle strutture ricettive. E per fortuna che quest’inverno è stato baciato dalle nevicate precoci, che hanno portato a un boom per le vacanze di Natale. Il trend, però, è sotto gli occhi di tutti: la monocultura dello sci ha fatto il suo tempo, per la scarsità di precipitazioni dovute al riscaldamento del pianeta (il ghiacciaio della Marmolada rischia di sparire entro il 2050), ma anche per i cambiamenti nei gusti e negli stili di vita della clientela, italiana e internazionale. «Non ci sono dubbi – sostiene Mara Manente, direttore del Ciset, Centro internazionale di studi sull’economia turistica dell’università Ca’
Foscari di Venezia – l’offerta va ritarata per raggiungere i nuovi
target: dagli appassionati di mountain bike ai ciaspolatori, da chi è alla ricerca della buona cucina italiana agli amanti del wellness. E poi la vacanza, ormai, è come un abito sartoriale, va cucita addosso su misura, grazie a internet e ai social network. Ovviamente con un filo
conduttore: il massimo rispetto per l’ambiente ». Più facile a dirsi che a farsi. Ma forse qualcosa il Veneto e il Friuli potrebbero imparare, e perché no copiare, dal Trentino Alto Adige, capace di attirare i due terzi di tutti i flussi turistici montani del Paese.
L’impresa difficile
Infine ci sono le attività industriali. Per carità, il distretto
dell’occhialeria bellunese non si tocca né si discute. E la speranza è
che la crisi della Safilo, alla lunga, possa essere riassorbita senza
troppi sconquassi sul piano dell’occupazione. Per capire comunque quanto
è difficile fare impresa a certe altitudini, specie per i piccoli, basta
ascoltare Agostino Bonomo, presidente di Confartigianato Veneto nonché
titolare di un panificio ad Asiago vecchio di due secoli: in bacheca è
conservato gelosamente un documento in cui viene stabilito il prezzo del
pane per l’anno 1822. «Sia chiaro, io mi sento persino fortunato –
allarga le braccia Bonomo -. L’altopiano di Asiago non ha subìto lo
spopolamento di altre zone. Il turismo ha tenuto. La banda larga è
arrivata, a differenza della dorsale Berica, dove si viaggia ancora con
il doppino telefonico. Fatto sta che, volente o nolente, devo sostenere
una serie di extracosti. Si pensi al riscaldamento, oppure ai trasporti:
i miei colleghi di Thiene o di Schio pagano meno la farina e le altre
materie prime. E non devono neppure preoccuparsi delle scorte. Io non
mollo, figurarsi. Ma per molti artigiani delle vallate, principalmente
nei settori tradizionali della meccanica o del tessile, andare avanti
sta diventando impossibile». Si torna, allora, alla domanda di fondo: le
Olimpiadi saranno sufficienti a invertire la rotta, ad arrestare il
lento, apparentemente inesorabile, declino della montagna? Ca’ Foscari
ha condotto uno studio sull’impatto economico-territoriale di
Milano-Cortina 2026, calcolando i costi e gli effetti diretti, indiretti
e indotti.
La scommessa a Cinque Cerchi
A fronte di una spesa complessiva per la parte riguardante il Veneto e
le province di Trento e Bolzano di 1,1 miliardi, i ricavi ipotizzati
ammontano a 1,4 miliardi, con 226 milioni di imposte (nazionali,
regionali e comunali) e 13.800 nuovi posti di lavoro. Piccolo
particolare: lo stesso responsabile scientifico della ricerca, Jan van
der Borg, professore di Economia regionale, pone l’accento
sull’«eredità» dell’evento. «Noi – sottolinea – abbiamo dimostrato che
le Olimpiadi, dal punto di vista dei conti, stanno in piedi. Non è poco.
È presto, invece, per prevedere quali potranno essere l’impatto sul
brand, le ripercussioni occupazionali durature, il cosiddetto effetto
rebound a livello interno e mondiale. La grande scommessa è proprio
questa: trasformare i Giochi in autentica opportunità di crescita per la
montagna. Alzare il livello complessivo della ricettività. Ripensare al
modo e agli strumenti della promozione turistica. Creare sinergie con il
food e in generale con il made in Italy. Soprattutto, individuare, da
subito, quali sono le infrastrutture assolutamente necessarie e non
perdere un secondo nel cominciare a realizzarle. Il treno delle
Dolomiti, per esempio, va portato a termine al più presto, a prescindere
dalle Olimpiadi. Perché è un’opera che va nella direzione giusta e
oltretutto fortemente simbolica, a basso impatto ambientale, in piena
sintonia con un approccio green». Perfetto. Solo che la lista delle
«opere essenziali » è lunga. Tanto che Luca Zaia, governatore del
Veneto, si batte per la nomina di un commissario straordinario con pieni
poteri, così da tagliare la burocrazia e accelerare i tempi. Si va dagli
interventi sulla Statale 51 di Alemagna (a partire dalla
circonvallazione di Longarone) a quelli nel Veronese (variante sud e
gronda nord), cui si aggiungono i progetti ferroviari (oltre al
collegamento Calalzo di Cadore-Cortina, l’elettrificazione della linea
Ponte delle Alpi-Calalzo). Senza contare tutta una serie di impegni
«minori». Insomma, la rinascita non è utopia e meno che meno nostalgia.
Sempre che i quattrini arrivino e il cronoprogramma venga rispettato.
Maria Lorraine Berton, presidente di Confindustria Belluno, nell’ultima
assemblea dell’associazione ha lanciato un appello, rivolto alla
politica nazionale e regionale: «Sta a noi, e a voi, lavorare per una
nuova centralità delle terre alte». Anche Berton, naturalmente, insiste
sul superamento del gap infrastrutturale e si spinge a rispolverare il
sogno dello «sbocco a Nord». Tuttavia non si ferma qui. «Le
infrastrutture – spiega – sono strategiche e costituiscono un
pre-requisito per cominciare a ragionare di rilancio. Ma la nuova
centralità della montagna passa anche da un salto culturale, ovvero dal
superamento degli stereotipi che la tengono imprigionata. Chi vive nelle
città pensa a questi luoghi come a un parco giochi dove passare le
vacanze, quindi a proprio uso e consumo. Oppure come a zone che devono
essere escluse dalla modernizzazione, meglio se prive di qualsiasi
attività manifatturiera. Bene, superare questi luoghi comuni e smetterla
con gli snobismi da salotto significherebbe mettersi, finalmente, dalla
parte della gente di montagna. Che desidera una sola cosa: potere
continuare a vivere quassù». Concetto semplice semplice. In fondo, le
terre alte non chiedono che «pari opportunità » con la pianura: servizi
e lavoro. Basterebbe ragionare in termini di valore aggiunto anziché di
costi.
2 marzo 2020 (modifica il 2 marzo 2020 | 16:10)